Mi capita sempre più spesso di incontrare persone che soffrono. È una sofferenza che riconosco, che ho sviscerato e che ho imparato a gestire, ogni tanto ci rincontriamo e con molto rispetto le faccio capire che “non c’è più trippa per gatti”! Parlo della dipendenza affettiva. Incontrarla per strada mi ha fatto venire voglia di condividere con voi parte della mia consapevolezza.
La dipendenza affettiva è una modalità di comportamento da ricondursi all’attaccamento del bambino nei primi mesi di vita. Secondo Bowlby le interazioni tra madre e bambino (che iniziano già durante la gravidanza, e che vanno dall'abbraccio allo scambio di sguardi, alla nutrizione, alla consolazione ecc.), strutturano ciò che viene definito sistema d'attaccamento, il sistema che guida (anche nella vita adulta) le interazioni e gli scambi relazionali affettivi.
Difatti, la funzione principale della madre è quella di dare al bambino una “base sicura” (J. Bowlby, Una base sicura, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1989): farlo sentire visto e protetto. Anche secondo Winnicott, in una situazione ottimale, l’obiettivo di una buona crescita psicologica si prepara, “già nel secondo anno di vita, quando il bambino impara a giocare da solo, alla presenza della mamma o del papà impegnati in altro. Da questo atto di autonomia, confortato dalla presenza delle persone per lui più rassicuranti, il bambino comincia ad acquisire col tempo la fiducia in se stesso che gli sarà sempre più necessaria man mano che crescerà” (A. Marcoli, Il bambino perduto e ritrovato: favole per far la pace col bambino che siamo stati, Milano: Mondadori, 1999).
La base sicura, che nei primi anni di vita viene assolta dalla mamma, poi, attraverso l'interiorizzazione dei comportamenti e degli affetti scaturiti dalla figura di riferimento, diventerà una struttura interna capace di consolare e proteggere. Avendo introiettato la figura di attaccamento, il bambino (e poi l'adulto) si sentirà sicuro e libero di esplorare il mondo che lo circonda con la certezza di ritrovare, dopo l’esplorazione, la propria madre.
Per meglio specificare, sempre secondo Bowlby, il bambino nel corso dell’interazione col proprio ambiente costruisce dei Modelli Operativi Interni (MOI), o Internal Working Models, del mondo fisico e sociale che lo circonda, che comprendono i modelli operativi di Sè e delle figure di attaccamento o, ancor più precisamente, modelli di Sè in relazione con l’altro.
“Una caratteristica fondamentale è il concetto di chi siano le figure di attaccamento, di dove le si possa trovare, e di come ci si può aspettare che reagiscano. Analogamente, nel modello operativo del Sè che ciascuno si costruisce, una caratteristica fondamentale è il concetto di quanto si sia accettabili o inaccettabili agli occhi delle figure di attaccamento. Sulla struttura di questi modelli complementari l’individuo basa le sue previsioni di quanto le sue figure di attaccamento potranno essere accessibili e responsive se egli si rivolgerà a loro per aiuto… Dalla struttura di quei modelli dipendono inoltre la sua fiducia che le sue figure di attaccamento siano in genere facilmente disponibili e la sua paura più o meno grande, che non lo siano” (J. Bowlby, Attaccamento e perdita, vol. 2: La separazione dalla madre. Torino, Boringhieri, 1975).
Nello stesso senso: i M.O.I. “diventano ben presto inconsapevoli e tendono ad essere stabili nel tempo, trovano la loro matrice nella relazione con la figura di attaccamento e sono costituiti da una rappresentazione di come è l’altro, e di come è il Sè e di quale relazione li unisce; la loro capacità anticipatoria degli eventi fa sì che influenzino grandemente le future relazioni affettive che in un modo o nell’altro tenderanno a ripetere la primitiva relazione tra il piccolo e la figura di attaccamento” in questa coazione a ripetere, “il soggetto si è costruito un’idea di come è l’altro e di come lo tratterà e finisce facilmente per selezionare proprio gli altri che hanno quelle caratteristiche … vi porrà un’attenzione selettiva perché sa riconoscerle come qualcosa di familiare, sa entrarvi facilmente in rapporto … il suo comportamento sarà …complementare e rinforzerà quello dell’altro instaurando un circolo vizioso di rinforzo reciproco” (R. Lorenzini – S. Sassaroli, Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995).
Prosegue Bowlby nella sua teoria dell’attaccamento che il ruolo della madre “consiste nell’essere disponibile, pronta a rispondere quando chiamata in causa, per incoraggiare e dare assistenza, ma intervenendo attivamente solo quando è chiaramente necessario”. La fiducia che nasce da una buona relazione tra madre e bambino aumenta la sicurezza nell’essere capaci di amare e di essere amati anche quando la madre non c’è “perché lo strutturarsi di stabili rappresentazioni interne, ci schiude l’accesso al modello positivo di un altro che è dentro di noi” (Relazioni stabili e durature come costruirle, Mensile di scienza dell’uomo, Rizza Editore, dicembre 1997).
Ciascun individuo, quindi, possiede un particolare stile di attaccamento che contraddistingue le sue interazioni affettive (relazioni di coppia, relazioni amicali, ecc.) e che influenzerà, poi, lo stile d'attaccamento del proprio bambino.
Come può innescarsi una dipendenza affettiva.
Non tutti i genitori sono in grado di fornire questa base sicura, soprattutto se non hanno la “comprensione e il rispetto per il comportamento d’attaccamento del proprio bambino” (J. Bowlby, Una base sicura, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1989) o se uno dei due genitori dovesse venire a mancare, infine se il genitore avesse alle spalle una situazione familiare problematica. Difatti, molti dati clinici testimoniano che il comportamento della madre nei confronti del proprio figlio è influenzato dalle sue precedenti esperienze personali. La madre a cui non è stata fornita una “base sicura”, a sua volta, non sarà in grado di trasmetterla. Alba Marcoli nel suo “Il bambino perduto e ritrovato” ci dice che esiste “una capacità senza la quale è difficile imparare a vivere … ed è quella di accettare il dolore dei distacchi e delle separazioni”. Racamier chiama elaborazione del lutto originario “la capacità di crescere a qualsiasi età della vita”. Una madre che mette al mondo il proprio bambino avrà quindi il proprio distacco/lutto da elaborare. Uno dei più frequenti è la sensazione di perdita di pienezza, soprattutto se la neo mamma è cresciuta senza costruirsi una buona fiducia in se stessa e nelle sue risorse. Il vuoto sarà ancora più difficile da colmare a scapito di una sana crescita del proprio bambino.
Quando il bambino non ha la certezza che la madre (figura di attaccamento) sia disponibile a rispondere ad una richiesta di aiuto, quando risponde solo ad alcune richieste emozionali ed altre, invece, le scoraggia, allora il bambino fonderà la sua identità solo in virtù delle risposte favorevoli disconoscendo gli altri aspetti di sè, con la conseguente causa di una formazione di un Sè non integrato ed instabile. L'esplorazione del mondo che lo circonda diventa incerta, esitante, caratterizzata da ansia, egli sarà quindi incline ad angoscia da separazione. Questo stile di attaccamento è innescato, come si è detto prima, da una figura che è disponibile solo in alcune occasioni ma non in altre, e da soventi separazioni, se non addirittura da minacce di abbandono, usate come mezzo coercitivo.
Bowlby ci fa l’esempio di alcune madri che da bambine avevano subito maltrattamenti, queste tenderanno ad instaurare meno interazioni con i loro bambini. Soprattutto, essendo vissute nella minaccia e nella conseguente paura di essere abbandonate dai genitori, avranno sviluppato l’angoscia di essere poi abbandonate dal futuro compagno e considereranno, poi, la violenza fisica come modello naturale che trasferiranno in eredità alla propria discendenza.
I tratti che caratterizzeranno l’individuo dipendente saranno, quindi: insicurezza nell'esplorazione del mondo, forte senso di colpa, convinzione di non essere amati, incapacità di sopportare distacchi prolungati nel tempo, ansia da abbandono, sfiducia nelle proprie risorse e capacità e fiducia, invece, in quelle altrui.
L'individuo permetterà passivamente che gli altri dirigano la sua vita, evitando di fare richieste per paura di perdere queste relazioni considerate un vero e proprio rifugio. Tutto ciò comporta un’estrema dipendenza che si manifesta con la difficoltà a prendere delle decisioni importanti e soprattutto autonome. Detto individuo avrà necessità di continue ed ulteriori rassicurazioni da parte di persone per lui significative. Ci sarà una predisposizione alla depressione. L'individuo con personalità dipendente si sente inadeguato ed incapace di affrontare il mondo e la vita con le proprie forze. “L’energia deve venire dall’altro, da colui che funge da mediatore nel rapporto tra lui e l’ambiente” (G. Delisle, I disturbi di personalità, Sovera, 1992).
Gli individui dipendenti solitamente cercano una o poche relazioni esclusive, sia con il partner che con gli amici, così da riprodurre quello schema comportamentale instauratosi nella fase post-natale. Soprattutto scelgono persone che sembrano in grado di affrontare la vita e che si possano prendere cura di loro. Si potrebbe dire che investono su queste figure di riferimento, affinché queste ultime si facciano carico delle responsabilità che altrimenti spetterebbero a loro in prima persona. Il soggetto dipendente pur di compiacere l'altro evita il conflitto ed ogni sorta di controversia per il timore dell’abbandono, rinnegando il proprio vero Sè.
Quando la relazione dipendente finisce, il soggetto molto probabilmente potrebbe sentire un sentimento di disgregazione con tendenza alla disperazione, come se una parte di sè fosse inevitabilmente andata persa e unico palliativo e soluzione sarà trovare subito una relazione sostitutiva per ristabilire il legame appunto dipendente, ossigeno indispensabile per la propria sopravvivenza.
La personalità dipendente, poi, è caratterizzata da uno stato di sottomissione e adesività. Sembrerebbe che nelle famiglie di detti soggetti ci sia un elevato controllo e una ridotta espressività di se stessi, del proprio modo di essere, di agire e di sperimentare.
Nelle relazioni di coppia il soggetto con personalità dipendente, come abbiamo detto in precedenza, andrà a cercare quel legame simbiotico che aveva con la madre.
All’inizio del rapporto sarà l’ansia l’emozione fortemente sentita, tanta l’incertezza e la paura dell’abbandono che, conseguentemente, non favorirà né il proprio benessere nè quello dell’altro, emergendo modalità relazionali caratterizzate da un aggrapparsi ansioso, o da richieste eccessive. Ma anche dopo il consolidamento del rapporto stesso si avrà paura che l’altro non ricambi effettivamente il sentimento. Solo se quest’ultimo si assoggetterà ad una vicinanza costante, se verrà incorporato, potrà diminuire l’ansia invece percepita. Come dice Antony Storr, incorporare un’altra persona “significa ingoiarla, sopraffarla e distruggerla; e quindi alla fine trattarla come se non fosse una persona completa. Identificarsi con un’altra persona significa perdere se stessi, immergere la propria identità in quella dell’altro, essere sopraffatti, e quindi trattare se stessi, infine, come una persona non completa” (M. James – D. Jongeward, Nati per vincere, Ed. San Paolo, Torino, 2005). Prevalente è anche l’ossessione dell’altro, la gelosia esasperata, frutto di forte insicurezza verso se stessi e gli altri, e l’ossessività.
Questo rapporto simbiotico nell’interruzione del ciclo del contatto gestaltico corrisponde alla confluenza, cioè quando due persone fondono tra di loro sentimenti, atteggiamenti e credenze, senza capire quali sono i rispettivi confini e dove differiscono. Sono una cosa sola, una sola persona. Tutto questo è sano in un rapporto sentimentale durante l’unione amorosa, ma diventa disfunzionale quando poi a questa simbiosi non addiviene un ritiro fertile, dove “masticare ed assimilare” (E. Giusti – V. Rosa, Psicoterapie della Gestalt – Integrazione dell’evoluzione pluralistica, A.S.P.I.C. Edizioni Scientifiche, Roma, 2002) l’esperienza appena vissuta e riconquistare il proprio confine e la propria identità. Non è sano costruire la nostra vita attorno ai bisogni dell’altro, sacrificare la spinta vitale, l’autonomia e la crescita personale per ricevere in cambio protezione, l’affetto non va scambiato con il bisogno. Quando questo è simbiotico ci limita e ci mantiene in una condizione di immaturità e di insicurezza cronica generando insofferenza.
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